In questi giorni ho ritrovato il testo di una conferenza che il gesuita belga Roger Lenaers (1925-2021) tenne a Bergamo dieci anni fa, sulla lucida soglia dei suoi novanta anni. Nella sua argomentazione, padre Lenaers sosteneva provocatoriamente che gli otri vecchi della religiosità tradizionale cristiana non possono contenere il vino nuovo della cultura moderna. Tale incompatibilità può portare al bivio di scegliere l’una contro l’altra, oppure alla possibilità di un’inculturazione, da lui caldeggiata, che comporti un radicale ripensamento delle espressioni del cristianesimo, perché possa sopravvivere alle obiezioni della razionalità contemporanea.
L’approccio moderno, infatti, non si rivolge più a un “altro mondo” soprannaturale per affrontare i problemi di questo, bensì all’interno del mondo stesso, autonomo e autosufficiente, regolato da leggi scientifiche, per quanto complesse. Si pensi a fenomeni come le eclissi, i fulmini o le pestilenze, che molte culture del mondo antico legavano a divinità adirate con l’umanità, mentre oggi possiamo fornirne una spiegazione scientifica. Negli ultimi secoli l’ipotesi di un intervento divino diretto nelle cose di questo mondo è stata messa quindi seriamente in crisi. Le catastrofi naturali, poi, ripropongono il paradosso di Epicuro: se esiste una divinità onnipotente e assolutamente buona il male non ci sarebbe; ma c’è il male nel mondo, quindi tale divinità non può essere onnipotente e buona. Con un esempio: se c’è stato il terremoto che ha fatto morire tanti innocenti, e crediamo che una divinità ci sia, o essa non ci protegge e quindi non è davvero buona, oppure non è onnipotente perché non è stata in grado di impedirlo. Queste obiezioni si svilupparono in tutta la loro forza con l’Illuminismo europeo, sino alle espressioni più esplicite di ateismo contemporaneo. Di fronte ciò, la Chiesa cattolica reagì condannando fortemente ogni riflessione in odore di “modernismo”; serrando i ranghi, riuscì a tenere la maggioranza dei fedeli lontana dalle idee dei “libri proibiti” perlomeno sino agli anni ’60 del secolo scorso. Ma oggi non più. L’idea teistica di una divinità che premia e castiga, accoglie sacrifici ed esaudisce preghiere, intervenendo miracolosamente per cambiare il corso delle cose, è divenuta insostenibile. Anzi, agli occhi della modernità è una ridicola superstizione. Anche per questo probabilmente le chiese si sono svuotate. E se si ricorre a pratiche tradizionali lo si fa giusto per scaramanzia; magari non ci si crede granché, ma tentar non nuoce. Siamo in una situazione difficile? Tocchiamo ferro, mettiamo un cornetto rosso in borsa, accendiamo un cero alla Madonna; il meccanismo di fondo è lo stesso.
Padre Lenaers definiva il credere nel significato originario di “atteggiamento di abbandono a una Realtà senza nome, che ci trascende e ci invita a unirci a lui … un movimento del nostro essere intimo, che ci dirige verso un Mistero che ci trascende e ci attira”. L’etimologia di credere è legata all’indoeuropeo *kér (cuore) dheh1 (mettere): dare il proprio cuore, metterci il cuore, in latino cor-dare. “Ma, affinché possiamo volgerci e abbandonarci a questo Essere, dobbiamo almeno vedere qualcosa della sua suprema attrattività”, diceva il gesuita. Egli la indicava in Gesù di Nazaret, attraente nel suo modo di pensare e di agire, che gradualmente plasma il nostro. Il cristiano crede non qualcosa, un insieme di dottrine, alcune delle quali sono difficilmente accettabili dalla sensibilità moderna, ma crede in Gesù Cristo, nel Dio che si è fatto conoscere personalmente e pienamente in Lui.
La modernità è incompatibile con l’idea teistica di una divinità barbuta che, posta al di sopra del mondo, interverrebbe su di esso, limitando la natura e l’umanità (che ne è parte) nella propria autonomia, ma non è incompatibile con il credere nel Dio di Gesù Cristo. Allora, riformulando la fede cristiana in modo tale che il Dio in cui crediamo non sia più percepito come una divinità “pagana” che manda grazie e disgrazie “dall’alto dei Cieli”, forse qualcosa si può salvare. Occorre però passare da una religione tradizionalmente intesa quale insieme di riti, devozioni e precetti a un atteggiamento di fiducioso abbandono, al vivere l’essenziale esperienza del Cristo. È quella della creatura limitata che si sente (chi)amata da un Mistero cosmico immenso. Ad esso possiamo continuare a dare il nome di Dio, Padre onnipotente. Onnipotente traduce pantokrátor, letteralmente “colui che governa tutto”; mentre l’idea di paternità, per quanto ancora antropomorfica, rimanda all’Amore Primordiale, all’assoluta e incondizionata tenerezza, e al contempo all’esigenza, spesso drammaticamente dolorosa, di una continua evoluzione cosmica, perché quel Mistero possa cambiarci per esprimersi in pienezza, anche in noi e con noi.
Così come può essere assai doloroso per noi passare a una rinnovata visione di Dio, che non può più essere pensato come estraneo al cosmo, in quanto ne è l’intimo e infinito fondamento spirituale. Che farcene delle nozioni catechistiche espresse nel linguaggio premoderno, ad esempio, dei miracoli? “Una riformulazione moderna delle esperienze che sono alla base della nostra dottrina, impedirà che l’uomo moderno possa ancora considerare la nostra fede come una collezione di chiacchiere, per le quali non può fare altro che stringersi nelle spalle e dire di no, non potrà negare le esperienze ma solo la loro solidificazione nelle formulazioni premoderne”, chiariva il gesuita. Il quale si spingeva molto audacemente ad affermare che, a rigore, sarebbe la fine di tanti aspetti che oggi caratterizzano della religiosità cristiana.
Tra i vari punti, si andrebbe verso la fine della preghiera di supplica. Se Dio non può sospendere le leggi della natura, in quanto sono “un’espressione del suo essere”, è assurdo indirizzare richieste a Dio, e a maggior ragione all’intermediazione dei Santi, affinché la divinità cambi i suoi progetti per attuare i nostri. Padre Lenaers non era il solo a dire queste cose: troviamo argomentazioni analoghe in altri autori, come Carlo Molari e Andrés Torres Queiruga. Dio ci sta già dando sempre tutto il suo Amore; i progetti di Dio superano di gran lunga i nostri meschini egoismi che tentano invano di manipolarLo; Dio sa già meglio di noi ciò che abbiamo bisogno; non possiamo delegare a Dio ciò che è nostra responsabilità ed è assurdo pensare di provare a convincerlo a sospendere le immutabili leggi della natura, che sono la libera espressione del suo Essere.
Qui viene la parte che ho trovato maggiormente significativa, soprattutto per noi Piccoli Fratelli. Al posto della prassi “troppo umana” della tradizionale preghiera di supplica, padre Lenaers propone “una spiritualità di abbandono, che sorge dalla coscienza che l’Amore Primordiale ci spinge incessantemente a diventare più umani, e che non dobbiamo far altro che lasciarci muovere a seguire i suoi impulsi”. A suo dire, l’unica “supplica” che abbia un senso mira all’essenzialità: non a bisogni transitori, beni terreni o guarigioni fisiche, ma al desiderio essenziale “di una più grande unione con l’Amore, che vuole impregnarci sempre più e dal quale siamo purtroppo ancora lontani”. Diventiamo sempre più consapevoli che partecipiamo dell’evoluzione del cosmo, che è l’auto-espressione di quel Dio che è interior intimo meo, come diceva Agostino, vale a dire l’intimità della nostra intimità, così come è superiore alla nostra parte più elevata. In modo paradossale, è infinitamente più piccolo della nostra piccolezza e infinitamente più grande della nostra grandezza. Ecco lo Stupore che ci getta in adorazione, in ginocchio, ed è la causa del nostro abbandono, vivendo anche noi l’abbandono del Figlio al Padre. Dio al tempo stesso ci sostiene dall’interno della nostra interiorità e dall’esterno del Suo abbraccio cosmico. Non può e non deve venir meno la dimensione affettiva, seppur espressa con nuove immagini che esprimano la familiarità con la Fonte viva che gratuitamente ci partorisce.
Dall’accento tradizionale sulla pietà e l’obbedienza si passa a quello sull’impegno sollecito per l’umanizzazione della società, per mettere in circolo l’impulso dell’Amore, per uscire da noi stessi e connetterci col prossimo, servendo la singola persona umana e il cosmo: ecco la diaconia del cristiano, chiamato a essere strumento di riconciliazione, realizzando il progetto dell’amore paterno che si concretizza nell’aiuto fattivo del bisognoso. Resterà, scrive il gesuita, “la consapevolezza di appartenere a un cosmo che è la sempre crescente autorivelazione di uno Spirito creatore, che è amore e che (per noi cristiani) si è reso visibile principalmente nella vita e morte di Gesù di Nazaret. Ed è la disponibilità, nata da questa consapevolezza, a lasciarsi condurre dall’amore nella linea di Gesù”.
Dimmi come preghi e ti dirò in che Dio credi. Forse possiamo fare a meno della preghiera di richiesta, ma non della preghiera di abbandono. È proprio questa, per padre Lenaers, la chiave di volta: dal chiedere all’affidarsi. Se vogliamo proprio chiedere qualcosa, chiediamo unicamente di affidarci, di abbandonarci sempre più, di lasciarci abitare dall’Amore. È l’Amore, manifestatosi in pienezza nel Risorto, a condurre la nostra vita, se glielo permettiamo, lasciandoci accompagnare da Lui, in Lui, nella nostra più profonda umanità, sempre più dilatata, sino a contemplare e ad abbracciare l’intero amatissimo universo.
Fratel Piotr